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La tosse è ritornata a essere temuta più della fame.

La tosse nel passato.

Contro i morsi del digiuno, si diceva, si rimedia sempre un boccone. Invece contro quella malattia, la tubercolosi, di cui la tosse è sempre ambasciatrice inascoltata, era una lotta impari fino a sessanta anni fa. Se ti acchiappava la vita diventava una candela. Non c’erano medicine. La cura del buon cibo, del riposo e dei bagni di sole all’aria fine costava una fortuna. Inoltre sapeva di beffa perché come nel gioco d’azzardo vinceva tanatos: la morte.

In montagna, le castagne, il latte, la segale e le uova erano scarsi e bisognava pure accantonarne per barattarli con zucchero, tabacco e caffè. Il riposo non poteva essere forzato più di tanto poiché tutto richiedeva sudore, anche il sudore dell’ammalato.  Infatti con la neve gli animali andavano governati e gli attrezzi riparati. Sotto il sole cocente le giornate erano infinite, come infinito era il lavoro tra pascolo, fieno e legna. Quanto poi ai bagni di sole, si passava dal poco del lungo e nevoso inverno al tanto e troppo sole della bella stagione. Durante la stagione fredda per riscaldarsi si preferiva il malsano tepore della stalla. La stagione calda invece era consumata all’alpeggio in balia delle notti e dei temporali gelidi.

Tubercolosi e Covid-19.

La tisi, come il Covid-19 oggi, non guardava in faccia a nessuno. Prendeva grandi e piccini, uomini e donne, macilenti e ben nutriti, il malgaro come il letterato. Non importava vivere in montagna o nei sontuosi palazzi di città. Ci si difendeva, non con una banale mascherina come avrebbero potuto fare se qualcuno lo avesse raccomandato, ma con il filo della speranza. Si sperava ovvero che gli ammalati sapessero di essere tali e che almeno starnutissero e tossissero secondo galateo e soprattutto che non sputassero per terra. Lo si rammentava sui mezzi pubblici con caratteristiche targhe di metallo bianche e blu e nei locali pubblici con la presenza di sputacchiere dalle mille fogge in ogni angolo.

La tubercolosi, alla pari del Covid-19, era ed è una malattia contagiosa e quindi temuta e nascosta. I più si spegnevano segretamente in casa, altri in sanatorio e i facoltosi in villeggiature dorate. Erano però temuti e tenuti a distanza o peggio. Frederìc Chopin subì un’onta per questo: trasferitosi a Palma di Maiorca, dovette sloggiare in malo modo dalla villa presa in affitto appena si venne a sapere la natura del suo soggiorno.

Le cure.

La lunga notte in cui il mal sottile tenne sotto scacco l’umanità durò millenni. Mica come l’Aids pandemie tipo il Covid-19 che appena incominciano a falciare vite umane ci si arrabbia perché non si dispone di una cura affidabile. Per curare la tbc ci vollero la pazienza di millenni e l’umiltà dell’uomo lungimirante di farsi cavia per i suoi figli come i nostri padri fecero per noi.

Dopo il pneumotorace, con cui si guariva il polmone ammalato mettendolo a riposo per un paio di anni, nel dopo guerra finalmente arrivarono la streptomicina che ti guariva, ma ti lasciava sordo; l’isoniazide, l’etambutolo… che ti lasciava… e infine la rifampicina. Quest’ultima fu ricavata dallo Streptomyces mediterranei scoperto in una manciata di terra raccolta nell’estate del 1957 nei pressi di Saint-Raphael sulla Costa Azzurra, studiato a Milano e prodotto dal 1968 a Brindisi. La Pfizer di allora fu la Lepetit, la Dow- Lepeti azienda che esordì a Garessio in provincia di Cuneo subito dopo l’Unità d’Italia estraendo tannino. Anche io ho partecipato a quelle ricerche e oggi ancora la tosse è ritornata a essere temuta più della fame.

Savino Roggia

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